L’Italia possiede un vasto patrimonio urbanistico di eccezionale valore storico ed architettonico che, purtroppo, viene spesso messo a repentaglio e talvolta distrutto da frequenti terremoti di elevata magnitudo. In passato si è quasi sempre preferito riedificare “come era e dove era”, ovvero negli stessi luoghi colpiti dal sisma, per preservare la preziosa memoria culturale di aree abitate da migliaia di anni. Ma non tutto il tessuto urbano danneggiato da un sisma è sempre di effettivo pregio e significato. Nel caso in cui l’edificio colpito non abbia alcun valore storico-architettonico e fosse ubicato in aree di elevatissima pericolosità geologica e sismica, è opportuno interrogarsi se sia geoeticamente ed economicamente accettabile perseverare nella ricostruzione in quegli stessi luoghi così grandemente esposti alle calamità geodinamiche.
È questa la domanda che, sin dal suo insediamento, si sono posti i componenti della Struttura Commissariale governativa deputata alla ricostruzione dell’area colpita dal sisma Mw 4.9 che il 26 dicembre 2018 ha colpito il fianco orientale dell’Etna, danneggiando oltre tremila edifici in un’area di circa 205 km2 abitata da oltre centoquarantamila persone.
L’eruzione del 24-26 dicembre 2018: un evento vulcano-tettonico
Tra il 24 ed il 26 dicembre 2018 è avvenuta una breve eruzione laterale dell’Etna alimentata da una fessura lunga circa 2 km apertasi nella parete occidentale della Valle del Bove (VdB in Figura 1). La colata lavica è discesa lungo la parete della valle espandendosi, poi, verso est per raggiungere una lunghezza massima di circa tre chilometri, rimanendo confinata all’interno di un’area desertica e quindi senza provocare alcun danno a case ed infrastrutture realizzate dall’uomo.
L’eruzione, però, è stata accompagnata da quasi quattrocento terremoti avvenuti tra il 22 ed il 28 dicembre e da notevoli deformazioni del terreno concentrate sia lungo la fessura eruttiva, sia sui fianchi del vulcano. Il più energetico di questi terremoti (Mw 4.9), con ipocentro molto superficiale (poche centinaia di metri) è avvenuto alle 03:19:14 ora locale del 26 dicembre, originato dal movimento della faglia di Fiandaca e caratterizzato da vistose rotture cosismiche osservate al suolo lungo una fascia di territorio larga da decine di metri a qualche centinaio e lunga circa 10 km. Ciò ha comportato danni significativi al tessuto urbano attraversato dalla faglia, che hanno costretto migliaia di persone ad abbandonare definitivamente le proprie case.

La ricostruzione post-sisma: dalle mappe strutturali alle ordinanze commissariali
Al fine di procedere in sicurezza con i lavori di riparazione e ricostruzione delle aree colpite dal sisma del 2018, la Struttura Commissariale, in collaborazione con altre Enti dello Stato, ha preliminarmente redatto una mappa che ha individuato le faglie attivatesi durante quel sisma, realizzata in modo conforme alle Linee guida per la gestione del territorio in aree interessate da Faglie Attive e Capaci (FAC). Sono stati identificati tre tipi di “microzone omogenee” in prospettiva sismica: la Zona di Attenzione (ZAFAC), la Zona di Suscettibilità (ZSFAC) e la Zona di Rispetto (ZRFAC). La Zona di Rispetto (ZRFAC) è la più pericolosa, poiché individua l’area dove si manifesta la fagliazione del suolo, ovvero un’area con una larghezza minima di 30 metri disegnata attorno ai piani di faglia emergenti in superficie (Figura 2). Una volta creata questa mappa (ne abbiamo parlato qui), è stato possibile emanare le ordinanze commissariali per la ricostruzione.
Nelle aree non direttamente interessate da faglie superficiali i privati cittadini e le istituzioni pubbliche hanno potuto immediatamente presentare progetti corredati da approfondimenti geologici ed indagini che hanno migliorato la comprensione del substrato geologico in ogni specifica area di progetto. Una comprensione più approfondita del contesto geo-strutturale è stata richiesta all’interno delle zone di Attenzione (ZAFAC) e di Suscettibilità (ZSFAC), per escludere la presenza di faglie nell’area di impronta dell’edificio o nelle sue immediate vicinanze.

Il piano di delocalizzazione, una scelta geoetica
Per gli edifici situati all’interno della Zona di Rispetto (ZRFAC), essendo soggetti non solo alle scosse sismiche generate dallo spostamento del piano di faglia ma anche alla fratturazione (fagliazione) del terreno sotto le loro fondamenta, è stato elaborato un piano di delocalizzazione (Figura 3). Questa strategia è stata attuata per garantire la sicurezza dei cittadini e per evitare di impiegare risorse per la ricostruzione di edifici fortemente a rischio di crollo nel giro di pochi anni o decenni, vista l’elevata frequenza dell’attività della Faglia di Fiandaca.
Il piano prevede la delocalizzazione di 58 edifici per un costo complessivo di circa 31 milioni di euro, normata dall’Ordinanza Commissariale n. 18 del 21 dicembre 2020. L’ordinanza dispone che ai proprietari di immobili danneggiati situati all’interno della Zona di Rispetto (ZRFAC) (Figure 4-6) sia concesso un contributo economico equivalente al valore dell’immobile da delocalizzare. Dopo la demolizione dell’edificio danneggiato dal sisma, ai proprietari viene offerta la possibilità di acquistare un edificio già esistente nel territorio o di costruirne uno nuovo in un’area sismicamente e geologicamente più sicura.
Esiste, però, un’altra faccia della medaglia: la delocalizzazione di un edificio, soprattutto quando esso è situato all’interno di un’area urbana consolidata da tempo, costringe intere famiglie a “emigrare”. Questo viene percepito dalla comunità come una perdita di valore economico (territoriale) e sociale (relazionale), che deve, quindi, essere mitigata come possibile. Infatti, soprattutto quando le comunità sono numericamente piccole come nel caso dei villaggi di Fleri e Aci Platani, particolarmente coinvolti nel piano di delocalizzazione, la perdita di decine di unità familiari può rappresentare una sfida socio-economica significativa, per cui sono state previste delle compensazioni in favore della collettività che rimane ad abitare in quei villaggi. Infatti, i terreni degli edifici delocalizzati sono stati gratuitamente assunti al patrimonio dei Comuni coinvolti i quali ricevono adeguate risorse economiche dal Commissario Straordinario per riqualificare urbanisticamente tali aree mediante la costruzione di parchi urbani e aree verdi, strade, parcheggi (Figura 3), ovvero opere compatibili con la fragilità geologica di quei luoghi e ad uso e consumo delle comunità locali.

La risposta della popolazione alla delocalizzazione della propria abitazione
Le reazioni al piano di delocalizzazione proposto dal Commissario Straordinario sono state molteplici e, a volte, di segno opposto. C’è chi ha subito accettato favorevolmente e colto l’occasione offerta dallo Stato di allontanare la propria abitazione da un territorio pericoloso e chi, per contro, si è opposto strenuamente a tale proposta, interpretandola come un atto ostile e cercando, quindi, di mettere in discussione il piano di delocalizzazione attraverso la ricerca di ulteriori pareri tecnici aderenti alle proprie aspettative di rimanere ad abitare negli stessi luoghi nei quali avevano vissuto fino alla data del sisma. In un caso emblematico un cittadino, a sue spese, ha fatto eseguire una trincea paleo-sismologica interpretata da specialisti del settore, nella speranza di confutare le evidenze di superficie riportate nella mappa commissariale: un tentativo risultato alla fine vano, poiché la trincea non ha fatto altro che acclarare ancor di più le evidenze geostrutturali di superficie.

Informazioni insufficienti o scelte irrazionali
Abbiamo, quindi, iniziato a riflettere su queste reazioni di segno così contrastante, promuovendo occasioni di incontro con la popolazione coinvolta nel piano di delocalizzazione. Inizialmente ci siamo chiesti il perché delle reazioni negative, ricercando le motivazioni poste alla base della decisione di alcuni individui di vivere in luoghi pericolosi, per esempio aree prossime a faglie sismogenetiche o zone fortemente suscettibili all’invasione di colate laviche. Abbiamo appurato che, spesso, questa decisione viene adottata sulla base di una mancanza di sufficienti informazioni: molte persone non sono consapevoli della elevata pericolosità del paesaggio geologico italiano ed in particolare delle regioni vulcaniche attive quali quelle etnee.
A volte, però, nonostante una generica consapevolezza del pericolo, alcuni individui scelgono di stabilire la propria residenza in aree ad elevata pericolosità indotta da fenomeni naturali.
Percezione, minimizzazione e negazione del pericolo
Per spiegare questi comportamenti siamo partiti dalla considerazione che terremoti ed eruzioni vulcaniche sono eventi improvvisi, discontinui ed imprevedibili anche se piuttosto rari, soprattutto quelli forti. Di conseguenza, la minaccia non è sempre percepibile dalla popolazione comune (Figura 5), anche quando il pericolo è raffigurato in mappe già fruibili e note. In casi di eventi calamitosi incombenti, gli individui possono mettere in atto strategie difensive che utilizzano per far fronte a eventi stressanti e per proteggersi da emozioni e pensieri che trovano insopportabili; in questo caso specifico le persone possono: a) minimizzare la gravità del pericolo, b) negare la sua esistenza; c) utilizzare il “pensiero magico”.
Chi minimizza ingiustificatamente il problema è incapace di gestire l’impatto emotivo dell’informazione che gli viene fornita, per cui ne riduce il valore allineandola alle sue capacità psicologiche, emotive e cognitive. Chi vuole costruire la sua casa, per esempio, si rassicura affermando: “costruiremo una casa in grado di resistere a qualunque terremoto. Non c’è motivo di preoccuparsi se si verifica un evento del genere”. Chi, invece, nega l’esistenza del problema, lo “cancella” dalla propria coscienza. Questo può avvenire per gli stessi motivi citati in precedenza, ma in questo caso indica delle risorse personali ancora più modeste. Per esempio, queste persone possono affermare: “…ma cosa sarà mai per un poco di terra che trema…!”. Tra i “negazionisti” più estremi rientrano anche coloro che non credono alla scienza e che si rifugiano in memorie popolari o esperienze personali che, tuttavia, rappresentano solo alcuni degli scenari possibili, ovvero quelli a loro più comodi e confortevoli. Ad esempio, taluni individui sopravvissuti ad un sisma assumono la convinzione che tale esperienza positiva sarà certamente replicata in futuro. Infine, nel caso del pensiero magico, le persone tendono a fare affidamento su intuizioni e collegamenti non logici e/o fondati su una conoscenza non scientifica. Il fondamento di tali affermazioni risiede nelle proprie esperienze personali o di persone vicine che tuttavia non sono rappresentative dei diversi scenari possibili. Un esempio di utilizzo del pensiero magico è il seguente: “mio nonno mi raccontava che la sua casa è stata risparmiata dal sisma, sicuramente anche a me andrà così”.
Questi comportamenti di coping, ovvero una serie di comportamenti messi in atto dagli individui per affrontare e gestire eventi stressanti, sono stati ampiamente documentati negli esseri umani e vengono spesso applicati, con diversi gradi di consapevolezza, in situazioni di disagio psicologico ed emotivo.

Una reazione di segno opposto: la paura eccessiva
Una risposta alternativa ed inversa alle precedenti è una reazione di paura molto intensa, che quando raggiunge livelli elevati riduce la lucidità dell’individuo e la sua capacità di ragionare razionalmente (Figura 6). In seguito alla rivelazione di una minaccia potenziale o probabile, alcuni individui hanno la tendenza ad aspettarsi esclusivamente gli scenari attesi più avversi. Questo conduce ad ingigantire ingiustificatamente le loro preoccupazioni, piuttosto che a valutare realisticamente le situazioni. Il disagio psicologico provato da queste persone in seguito alla prospettiva di un potenziale disastro può avere un impatto significativo sulla loro vita quotidiana. Per esempio, nonostante abbiano preso tutte le precauzioni necessarie, tali individui possono ancora provare apprensione e manifestare un’ansia elevata nei confronti degli eventi sismici, anche se dimorano in un edificio antisismico e situato a una distanza considerevole da faglie attive. Ciò si traduce anche in periodi prolungati di insonnia causati dell’apprensione per ipotetiche esperienze traumatiche future associate ad un ipotetico sisma. Questa reazione può essere particolarmente intensa in individui che hanno già vissuto l’esperienza di un sisma e conseguentemente subito danni significativi alla propria abitazione. Esperienze impattanti come queste possono lasciare tracce profonde nella mente e nel corpo, portando a una condizione di ipervigilanza e a una risposta di stress cronica.

Patologie o strategie difensive?
È importante sottolineare che i comportamenti prima descritti non indicano necessariamente la presenza di una patologia. Piuttosto, rappresentano strategie difensive che le persone utilizzano per far fronte a situazioni di disagio o che le costringono a lasciare la loro zona di comfort, ovvero il loro luogo sicuro, in questo specifico caso rappresentato dall’edificio e/o dal quartiere in cui risiedono e vivono.
L’impatto psicologico della delocalizzazione della propria casa è considerevole e può essere vissuto in modo negativo, in particolare per individui emotivamente vulnerabili o che hanno una storia di pregresso disagio economico o sociale determinato da qualsivoglia ragione. Anche il significato soggettivamente attribuito alla propria casa fa parte di queste dinamiche: la casa non rappresenta solo un edificio fisico, ma è anche un luogo depositario di ricordi, affetti e legami sociali. A titolo esemplificativo, si pensi a un individuo che ha investito emotivamente ed economicamente nella costruzione della propria abitazione, spesso l’unica in suo possesso, dimostrando un impegno costante nel progetto, facendo notevoli sacrifici personali e dedicando anni, se non decenni, nell’impresa. Poi, inaspettatamente ed improvvisamente, un terremoto provoca danni irreparabili alla sua casa, azzerando in pochi secondi il frutto del suo faticoso lavoro. È intuibile concludere che quella persona, in quella situazione, provi un profondo senso di perdita, tristezza e disorientamento, venendo a mancare un chiaro punto di riferimento della sua vita e dovendosi, poi, confrontare con la cruda realtà della distruzione di un luogo che prima percepivano come sicuro e accogliente. Anche la distruzione di edifici di culto, costituendo dei luoghi di aggregazione collettiva, può rappresentare una perdita identitaria (Figura 7).
La perdita della propria casa, in termini simbolici, rappresenta il crollo di un punto di riferimento fondamentale per la vita di tutti noi, ovvero l’assenza di un luogo sicuro a cui tornare, lo sgretolamento delle memorie a cui siamo affezionati, che porta con sé emozioni che possono procurare un male quasi fisico: paura, rabbia, smarrimento, confusione, abbandono, tristezza, vuoto. Dobbiamo, comunque, aspettarci che le reazioni varino da individuo a individuo, in base all’esperienza di vita, alle capacità cognitive e alle risorse culturali, sociali ed economiche di ogni persona. Tali esperienze possono essere classificate come “shock biografico”, un termine usato per descrivere un momento della storia dell’individuo che assume il ruolo di spartiacque, che segna un prima e un dopo nella sua vita.

L’importanza del dialogo empatico tra lo Stato ed i cittadini terremotati
Ciò che abbiamo compreso nel corso di questo studio è che la semplice conoscenza delle cose, cioè il possedere mezzi cognitivi e culturali adeguati per comprendere pienamente l’informazione sulla pericolosità di un certo luogo, non è sufficiente per assumere atteggiamenti conservativi e/o saggi. Sapere non basta. Questo avviene perché gli individui sono capaci di auto-ingannarsi e persino di distorcere la realtà quando queste azioni servono a proteggersi da emozioni e pensieri che trovano insostenibili. Ciò evidenzia l’importanza di considerare l’assistenza psicologica quale elemento cruciale e complementare del sostegno alle popolazioni colpite da disastri naturali. Nel fornire assistenza psicologica, è essenziale agire tempestivamente diversificando l’approccio in base al tipo e dimensione del disastro, agli interventi programmati ed ai tempi previsti per la ripresa. La portata del sostegno, quindi, dovrebbe andare oltre la ovvia assistenza economica. Dovrebbe, cioè, mirare ad aiutare le persone a fare fronte alle difficoltà che incontrano nell’immediato dopo la tragedia, fornendo un supporto emozionale aggiuntivo per gestire la conseguente mancanza di punti di riferimento fondamentali per la loro esistenza. Nel caso della ricostruzione post-sisma 2018, il dialogo intercorso sin da subito tra i tecnici della struttura commissariale governativa e la popolazione colpita dal sisma (Figura 8), in particolare quella coinvolta nella delocalizzazione, rappresenta un primo passo significativo per comprendere la natura multiforme e sfaccettata del necessario sostegno, oltre la semplice assistenza economica, basato sulla condivisione empatica del disagio.

Delocalizzare gli edifici più a rischio: una strategia esportabile anche per altre calamità?
Riteniamo che non sia geoeticamente accettabile ricostruire sempre e comunque in qualsiasi area colpita da una calamità naturale. In seguito a un terremoto disastroso, ad esempio, è essenziale identificare le zone con un rischio geologico e sismico inaccettabilmente alto, per poi procedere a delocalizzare le strutture edilizie più esposte e quindi a ridurre la densità urbana nelle aree più a rischio. Il problema è, ovviamente, stabilire in modo univoco e condiviso quando un determinato rischio è tanto “inaccettabilmente alto” da suggerire tale pratica. Nel caso di fenomeni di fagliazione superficiale che si ripetono con frequenza elevata colpendo sempre gli stessi luoghi, è a nostro avviso geoeticamente giustificabile delocalizzare gli edifici che vi ricadono sopra o nell’immediato intorno.
È, tuttavia, di fondamentale importanza che le popolazioni coinvolte siano consapevoli del contesto geologico in cui vivono e delle misure che possono essere adottate per mitigare gli effetti negativi di futuri disastri naturali. Per facilitare l’accettazione delle scelte di pianificazione è indispensabile che le autorità governative responsabili della ricostruzione delle aree colpite da disastri comunichino in modo empatico con le popolazioni colpite, spiegando le motivazioni alla base delle loro scelte (Figura 8).
È, inoltre, significativo il fatto che la metodologia sviluppata nella regione etnea per il trattamento degli edifici esposti a rischi geologici e sismici particolarmente elevati sia stata successivamente adottata, con opportuni adattamenti normativi che tengono conto delle specificità locali, alla ricostruzione di altre regioni colpite da terremoti nell’Italia centrale (terremoti del 2016-2017) e ad Ischia (sisma 2017). Questo approccio alla ricostruzione post-sisma rappresenta, quindi, un modo nuovo, che noi riteniamo logico e geoeticamente condivisibile di pianificare la ripresa socio-economica di aree urbane colpite da fenomeni di fagliazione superficiale in Italia e nel mondo.
Ringraziamenti
Esprimiamo la nostra profonda gratitudine a C. Doglioni, già Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ed a S. Scalia, Commissario di Governo per la Ricostruzione delle Aree Terremotate dell’Etna sisma 2018, per il loro prezioso e costante supporto nel corso di questo progetto. Ringraziamo, altresì, M. L. Carbone, A. M. Londino, G. Licciardello e G. Scapellato per la loro assistenza nella preparazione del piano di delocalizzazione, ed i geologi del Genio Civile di Catania F. Chiavetta, G. Filetti e C. Marino, per il loro contributo nell’elaborazione della mappa delle faglie attivate dal sisma del 26 dicembre 2018.
Per approfondire
De Novellis, V., Atzori, S., De Luca, C., Manzo, M., Valerio, E., Bonano, M., et al. (2019). DInSAR analysis and analytical modeling of Mount Etna displacements: The December 2018 volcano‐tectonic crisis. Geophysical Research Letters, 46, 5817–5827. https://doi.org/10.1029/2019GL082467.
Neri, M., & Neri, E. (2024). Etna 2018 earthquake: rebuild or relocate? Applying geoethical principles to natural disaster recovery planning. JOURNAL OF GEOETHICS AND SOCIAL GEOSCIENCES, 2(Special Issue), 1-28. https://doi.org/10.13127/jgsg-49.
a cura di Marco Neri (INGV, Osservatorio Etneo, Struttura Commissariale Ricostruzione Area Etnea – Presidenza del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano – Acireale) e Emilia Neri (Psicologa e Psicoterapeuta – Aci Castello).
L’immagine di copertina di questo articolo mostra l’interno della parte antica della Chiesa Parrocchiale di Maria SS. del Rosario di Fleri, nel comune di Zafferana Etnea. Il muro perimetrale, realizzato in pietra lavica e malta, è parzialmente crollato in conseguenza del sisma del 26 dicembre 2018. Il tetto in legno, invece, sostenuto da una struttura metallica costituita da colonne, travi e tiranti, realizzata all’interno del corpo edilizio dopo il sisma del 1984, ha resistito allo scuotimento sismico.
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Ricostruzione post-sisma Etna 2018: il piano di delocalizzazione ed il dialogo con i cittadini

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