Lhok Nga e la Moschea Rahamatullah

Erano passati sei mesi da quando, nel febbraio 2024, avevo visitato le zone colpite dallo tsunami del 2011 in Giappone . Pur essendo già stato nell’area di Sendai qualche anno prima e nonostante fossero passati tredici anni dallo tsunami del 2011, l’impressione era stata fortissima: le visite alla scuola di Arahama e al museo di Natori avevano lasciato un segno indelebile nella mia memoria. A novembre 2024 si è presentata l’opportunità di visitare la zona di Banda Aceh, in Indonesia, una delle aree più colpite dallo tsunami dell’Oceano Indiano del 26 dicembre 2004. L’occasione era associata al Global Tsunami Symposium, organizzato dal governo indonesiano per ricordare i 20 anni dall’evento. Insieme a un piccolo gruppo di esperti dell’area NEAM (Nord-Est Atlantico, Mediterraneo e mari connessi), uno dei quattro gruppi di coordinamento intergovernativo (ICG) mondiali per il monitoraggio degli tsunami, eravamo stati invitati per presentare le attività del nostro ICG e discutere del futuro dei sistemi di allerta.

La sala dove si è tenuto il Simposio Globale degli Tsunami a Banda Aceh

A me spettava il compito di illustrare le attività e i principali sviluppi del nostro sistema di monitoraggio e allerta. Tra le principali novità, ho descritto i nostri sforzi per migliorare i tempi e l’accuratezza delle previsioni in tempo reale degli tsunami, i sistemi di monitoraggio del livello del mare con l’imminente installazione di strumenti a fondo mare, a Stromboli e nel Mar Ionio, i risultati del progetto UNESCO Tsunami Ready, e molte altre attività recenti che sono attualmente in fase di implementazione nel Mediterraneo e nell’Atlantico. 

Oltre ai tre giorni di lavori del convegno scientifico – svoltosi nei giorni 11, 12 e 14 novembre 2024 -, era stata organizzata per il 13 novembre una giornata di visita ad alcuni luoghi importanti per l’impatto dello tsunami del 2004 e per la memoria ad esso associata. 

Non sapevo cosa aspettarmi. Venti anni sono tanti, ma l’Indonesia non è il Giappone, il disastro era stato sicuramente più grande (se può avere senso confrontare una tragedia da ventimila vittime con una da 250mila), e le capacità dei due Paesi del cosiddetto Build Back Better (la capacità di ricostruire meglio di prima) sono certamente molto diverse.

Il giorno del field trip siamo stati divisi in gruppi e organizzati con itinerari diversi. L’accoglienza dei locali è stato davvero eccezionale, sia di coloro che ci seguivano nelle visite, sia di tutte le persone che abbiamo incontrato lungo la visita: gentili, sorridenti, addirittura riconoscenti per essere andati fin laggiù a vedere cosa fosse successo e ad aiutarli a capire e ripartire. 

Lhok Nga

La prima sosta è stata a Lhok Nga, un villaggio che era stato colpito duramente dallo tsunami del 2004, e dove ora sono state ricostruite parte delle case e delle infrastrutture, forse con minore densità e migliore organizzazione viaria e logistica (almeno lo spero!). Certo, una grande differenza rispetto alle cittadine costiere della zona di Sendai, nelle quali l’assetto urbanistico è stato modificato radicalmente dopo lo tsunami del 2011. 

Qui sicuramente gli abitanti hanno fatto grandi progressi nella conoscenza del fenomeno e nella capacità di risposta, tanto da essersi guadagnati il riconoscimento UNESCO “Tsunami Ready” (vedi qui per i dettagli su questo programma). Appena arrivati siamo stati accolti da una cerimonia di benvenuto, con una serie di canti e balli da parte della comunità indigena, dopo la preghiera e i saluti delle autorità locali.

Alla fine della cerimonia è stato realizzato un collegamento con alcune altre località della provincia dove erano in corso delle esercitazioni. Mentre assistevamo a queste attraverso un monitor posizionato sotto la tenda allestita per ripararci dal gran caldo, è stata lanciata a sorpresa (almeno per noi) l’esercitazione, al grido di GEMPA! GEMPA BUNI! (TERREMOTO! TERREMOTO!). Ci siamo tutti riparati accucciandoci sotto o tra le sedie, coprendoci la testa con gli zaini o con le braccia. Poco dopo, la parola TSUNAMI è risuonata nell’aria ed è iniziata la parte di esercitazione che prevedeva l’evacuazione di quell’area verso l’entroterra.

 

Abbiamo quindi seguito i ragazzi e le ragazze della protezione civile locale, seguendo prima la strada provinciale asfaltata per poi girare e imboccare un sentiero sterrato che conduceva verso la collina. 

 

Non siamo stati portati fino all’area sicura, che abbiamo capito essere piuttosto lontana visto che le strade erano piuttosto pianeggianti in quella zona (qui lo tsunami è penetrato per chilometri!). Ma ci siamo fermati in campagna lungo il percorso per fare una sorta di briefing, per poi rientrare. Tornando all’area dove avevamo assistito agli spettacoli, mi hanno fatto notare un grosso albero proprio dietro al palco, che quasi in cima recava i segni dell’altezza raggiunta dallo tsunami: impressionante! Impressionante pensare che tutto quel territorio fosse stato travolto da una massa d’acqua alta circa venti metri che era penetrata per alcuni chilometri! Eravamo a poche centinaia di metri dalla costa e in prossimità di un fiume che deve aver agito come via preferenziale per l’inondazione. E, non di meno, mi era sembrato sconcertante che ora le persone fossero tornate ad abitarci, a costruirci le scuole, i negozi, certo con una maggiore consapevolezza del rischio, ma pur sempre in un’area dove un fenomeno del genere si potrebbe ripresentare

La moschea Rahamatullah di Lampuuk

Lasciato il villaggio di Lhok Nga, siamo andati a visitare una delle più famose costruzioni della regione, diventata con lo tsunami del 2004 un’icona del rischio: la Moschea Rahamatullah di Lampuuk

È quell’edificio bianco rimasto al suo posto in mezzo a una regione completamente devastata, nella quale l’intero circondario venne cancellato dallo tsunami. Una distesa pianeggiante di centinaia di metri di fango, detriti, alberi abbattuti, barche, in mezzo alla quale svettava la Moschea, l’unico edificio rimasto illeso (apparentemente illeso, come vedremo) in tutta la zona. La scena era del tutto analoga a quella della scuola di Arahama, in Giappone, sul cui tetto si erano rifugiati molti studenti e insegnanti della scuola stessa insieme a qualche centinaio di abitanti della zona che l’avevano usata per mettersi in salvo dalla furia dello tsunami (quella che viene definita “evacuazione verticale”).

Entrati nell’area della Moschea, siamo stati accolti da alcuni abitanti del luogo che gestiscono l’accesso alla moschea stessa e a un piccolo museo in cui sono esposte molte foto della zona e alcuni reperti. Tra loro, una signora anziana ci ha raccontato la sua esperienza del 2004: durante lo tsunami, si trovava fuori dall’area inondata ma la sua mamma e i suoi tre figli erano all’interno di questa. Quando intuì il pericolo per loro, si precipitò verso la scuola dove si trovavano per portarli via, ma si imbatté in una folla di persone che andavano nella direzione opposta alla sua, allontanandosi velocemente dalla costa, e le urlavano “Kembali! Kembali!”(indietro!), “Tsunami! Tsunami!”. Si era dovuta quindi rassegnare a tornare sui suoi passi. Con le lacrime agli occhi ci disse che non li aveva più visti. Purtroppo di storie così ne abbiamo lette e sentite molte; non c’era una persona nella zona di Aceh che non avesse perso almeno un parente o degli amici a causa dello tsunami

L’attuale Moschea è molto simile a quella pre-2004, ma i lavori di ripristino e di rinforzo sono stati imponenti. Pur avendo resistito allo tsunami, il passaggio del mare all’interno dev’essere stato decisamente impetuoso lasciando segni importanti. Un settore interno è stato lasciato così come subito dopo lo tsunami: colonne abbattute, tondini di acciaio deformati, un tappeto di coralli in terra e un cartello con scritto: DON’T FORGET TSUNAMI.

Sono stati anche aggiunti due alti campanili, sopra i quali sono stati installati i segnalatori acustici che in caso di tsunami daranno contezza dell’allertamento in corso.

 

Mentre eravamo all’interno, con i colleghi ci chiedevamo a che altezza fosse arrivata l’inondazione, memori ad esempio, che la scuola di Arahama in Giappone era stata investita da una massa d’acqua che aveva raggiunto un’altezza di quasi 5 metri, in pratica i primi due piani erano stati investiti dallo tsunami. Abbiamo poi capito, osservando la distruzione interna e i segni sulle pareti, che l’intera volta interna, alta una decina di metri, doveva essere stata riempita fino al soffitto dal flusso d’acqua dell’oceano. Una cosa davvero impressionante. 

Ancora più impressionante il fatto che, come già visto a Lhok Nga (distante pochi chilometri), dopo il 2004 intorno alla Moschea sono state ricostruite moltissime abitazioni, che si trovano quindi nella zona a rischio. Incuriosito da questo, il mio collega Fabrizio Romano ha parlato con una persona che abita nella prima fila di case: nonostante la sua famiglia fosse stata decimata dallo tsunami, lui è ritornato a vivere là.

La Moschea oggi (foto da Google maps). Dal confronto con la foto della stessa Moschea (sopra) si nota il gran numero di case ricostruite nella zona di inondazione dello tsunami del 2004. 

A cura di Alessandro Amato, Centro Allerta Tsunami (CAT) INGV


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Lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano: in visita alle aree colpite /parte 1: Lhok Nga e la Moschea Rahamatullah


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